Poetare con Antonio Bux
Cerco le coordinate, non le trovo. Intanto faccio un po' di domande all'autore di Mappe senza una terra, candidato al Premio Strega Poesia 2024.
Qual è il senso di una vita se non il vagare, il perdersi, il ritornare, provare la solitudine, fermarsi, cercare radici – nella propria lingua o in un’altra, nei propri luoghi o in quelli in cui si è scelto di vivere – e poi perdersi ancora?
C’è una smaniosa sete di risposte nell’ultimo periodo che abbraccia un vuoto: la paura di non riuscire a guardarsi più dentro, sempre troppo alle prese con il “fuori”. Poi arriva Mappe senza una terra, le domande si sovrappongono in un viaggio onirico che turba e conforta. Un lavoro altissimo che richiede senza dubbio uno sforzo per il lettore. Non tanto di comprensione quanto, piuttosto, il coraggio di andare incontro a una «forza ignota» (cito l’autore) di grande potenza evocativa anche in assenza di coordinate. Che pure esistono, come in tutte le mappe.
Trovo che nel vuoto e nel disorientamento la poesia consenta sempre di ritrovare un respiro interiore, anche quando ci sfugge.
Ho deciso di chiedere ad Antonio Bux, che con Mappe senza una terra (RP Libri, 2023) è candidato al Premio Strega Poesia 2024, se potesse rispondere ad alcune domande.
Una necessità quasi del tutto personale, che trova in questa newsletter il canale e l’espediente per condividere un sentire, un verso, il pensiero di un autore.
La silloge si compone di due parti, Saluti dalla colonia e L’oppio di Barna. Il viaggio parte dalla terra di origine, la Capitanata, e si sposta tra le strade di Barcellona, una nuova “casa” metafora di cambiamento e di maturità. I luoghi (anche quelli perduti), la natura, i personaggi e i maestri legati eternamente a quegli spazi sono occasione di incontro e di dialogo, di esplorazione del sé.
Mappe senza una terra
Punta Grugno
(Mattinata)
L’ultimo mare che ho guardato
sulla tua schiena sembra il mare
che da bambino sognavi
dietro di me
ed è così reale, ora
saperti verso il tuo mare
dove tu sei bambina, insieme
con me a guardare noi sogni
svegliati dal mare
ma è la tua schiena
e tu non sei sveglia, e io
sono ancora bambino
e il mio mare ti è dentro.
Mappe senza una terra
Prima Parte – Saluti dalla colonia
*
Casa Battló Pere Gimferrer non l'ho mai visto, però mi ha detto una volta che Casa Battló non esiste. "È un'immagine di rose cadute, un giardino tradito". Gli risposi che "Da qui l'aria è una vertigine misteriosa, soggiorna e fa luce più sotto. E questa casa, casa morta, volta a un emisfero di crani ritrova il paesaggio come un gatto miracolato". La mia risposta non gli piacque e scomparve dietro la mia giacca. Però ho tradotto cinque poesie di Gimferrer. Una proprio davanti a questa casa. Ne ricordo ancora la chiusa: "Al vertice dell'aria vivrà l'aria, nel cerchio a cupole del vento". Mappe senza una terra Seconda Parte – L'oppio di Barna
Mappe senza una terra traccia un percorso, un’evoluzione, ma è anche un ciclo che si compie nelle ultime pagine, con la poesia “Fuga”. Cosa significa andarsene, e cosa restare?
Credo che con l’andarsene si celebri il movimento dell’origine, la prova che quell’origine da dove siamo venuti ha una sua potenza che portiamo in fronte come un’etichetta, quasi a dire: io vengo a te per mostrarmi, per mostrarti la mia radice, ma anche: io vengo a te per dirti chi siamo, così come tu vieni a me per offrirmi uno specchio; dunque una specie di comunione di lontananze che si scoprono vicendevolmente. Mentre con il restare quel movimento dell’origine si sedimenta, forse, per esplorare la parte di sé cresciuta in ombra e, dunque, più sotterranea. Restando si sottolinea anche la pazienza di questa sedimentazione, l’attesa di riscoprirsi attraverso anche l’apparente monotonia dei luoghi attraversati, che in realtà sono in continua mutazione.
E com’è ritornare?
Ritornare credo rappresenti sempre una forma di riconciliazione attraverso lo specchio della propria identità, dunque un rinnovamento dell’origine che si autoalimenta della parte più esperienziale dello spirito. Tutto questo credo sia inevitabile, a un certo punto della propria vita; credo sia proprio inevitabile non andare alla fonte del proprio destino, già inscritto nei codici della venuta al mondo di ognuno di noi. Tra l’altro, ritornare rappresenta sempre un venire per la prima volta, proprio perché lo sguardo non ammette ritorni, al contrario della mente, lo sguardo non sedimenta il proprio vissuto, ma lo rinnova continuamente.
Cosa ti ha insegnato questo viaggio?
Il viaggio di questo libro mi ha insegnato soprattutto il bisogno di tracciare linee, di sedimentare la propria esperienza, sia spirituale che materica, ponendo le basi per un più vasto campo, che è quello della concentrazione mentale attraverso le mutazioni del paesaggio che condizionano anche quelle del proprio spirito. Sicuramente è un’esperienza di arricchimento, quella di sondare il paesaggio come fosse traccia del proprio stato interno e non soltanto luogo esteriore. È come se i luoghi appena conosciuti fossero in noi da sempre e attendevano solo il momento della comune visione per riconciliarsi.
Italia e Spagna, Vittorio Bodini e Leopoldo María Panero, dialetto foggiano e lingua catalana. Nella tua poesia si parla il linguaggio della dicotomia o dell’ambivalenza?
Credo si parli entrambi i linguaggi, perché se è vero che la dicotomia viene esaltata tra due terre e più lingue apparentemente sconnesse tra loro, qui unite solo dallo spirito dell’esperienza del singolo individuo, dall’altra parte è ancor più vero che l’apparente dicotomia cerca, non so con quali risultati, di esaltare l’ambivalenza, ovvero la possibilità sempre nuova e sempre, mi si passi il termine, originale, di trattare la lingua ridefinendola ogni volta a seconda delle esigenze del momento.
La solitudine alleggia tra i versi e plana sui luoghi, dal Gargano alla Catalogna. “Barcelona mi soledad” ne è l’esaltazione. Eppure la ricerca di un dialogo – con il passato, con i maestri, con gli elementi fisici e naturali del paesaggio circostante – è una costante. Il dialogo immaginato è l’espediente per combattere la solitudine oppure è il suo pieno accoglimento? Qual è il tuo rapporto con lo “stare soli”?
Credo sia più il suo pieno accoglimento. Le voci, come il paesaggio, sono in noi, bisogna solo portarle alla visione o, nel caso delle voci, all’orecchio. È un dialogo secolare con l’ignoto che ci attraversa, perciò la voce di un albero d’ulivo o di un poeta che non è più con noi sono motivo di risonanza, di riflessione nel senso di rispecchiamento con la propria interiorità, che è poi quella dell’intero universo (quando un poeta si esprime, lo fa non dimenticando mai la vibrazione sottile che c’è tra questo e quel mondo, almeno, nel mio caso è così).
La tua parola preferita?
Quella/e che ancora non conosco.
Antonio Bux (Foggia, 1982) è autore, editor e traduttore. Dal 2012, anno del suo esordio, ha pubblicato oltre trenta libri propri e curato la pubblicazione di più di sessanta opere altrui. Tra i suoi titoli, ricordiamo: Trilogia dello zero (Marco Saya, 2012), Naturario (Di Felice, 2016), Sasso, carta e forbici, (Avagliano, 2018), La diga ombra (Nottetempo, 2020), Diario dell’intruso (Marco Saya, 2022), Gemello falso (Avagliano, 2022) e Mappe senza una terra (RPlibri, 2023). Ha inoltre pubblicato tre libri in spagnolo e due in dialetto foggiano. Con le raccolte sopra menzionate è risultato finalista in vari premi, tra i quali si ricordano il premio Viareggio, il premio Carducci, il premio Camaiore, il premo Città di Como, il premio Lorenzo Montano e il premio Strega. Ha inoltre vinto, tra gli altri, il premio Paolo Prestigiacomo (categoria under 40) il premio Alfonso Malinconico (categoria under 40), il premio Umbertide, il premio Città di Minturno e il premio Iris di Firenze. Si occupa di critica letteraria per le pagine del quotidiano “La Repubblica” (edizione di Bari) e dirige varie collane di poesia e prosa poetica.
Hai perso la prima puntata di “Poetare con”?
Eccola qui!