Visione
[Rima 9] Cose accumulate e cose vissute. Sempre in mare aperto – come una vela sperduta.
Torna con una cadenza non più nota – scusate – una nuova puntata di Per le rime. Torna con Antonia Pozzi e una vela che si fa soffiare da un ricordo.
Da luglio a oggi ne sono successe. Per esempio mi sono sposata 🥳. Per esempio sono entrati nuovi progetti, insieme a quella sensazione meravigliosa degli inizi. Poi ho ricominciato a leggere con una certa costanza e una parte consistente di questa puntata muove dalla crisi con la lettura. Adesso ho di nuovo qualcosa sul comodino, qualcosa che viaggia sulle metro lente e interrotte pre-Giubileo, che porto in giro per casa nella tratta tavolo-divano-letto e che, infine, ritorna sul comodino la sera. Dove appoggio anche altre cose (che vi racconto a fine puntata, come da vecchio protocollo).
Di scrivere, invece, neanche a parlarne. Mi costa sempre tanto, soprattutto dover scegliere quanto e come scavare, quanto e come scendere nei dettagli. Poi alla fine lo so che sentirò come di aver svuotato il cesto in cui metto le cose a cui spesso non trovo un posto. Prima, però, il calvario passa almeno da 6 o 7 revisioni (e un sacco di tagli).
Letterature parallele
Da quando in qua leggere è diventato un atto estetico?
Forse da quando le immagini di un libro davanti al caminetto e vicino a una tazza di tè avvolta in un maglioncino di lana ci hanno fatto credere che non importa leggere quanto apparire leggendo.

Io me lo ricordo, quando leggevo di nascosto.
Mi è venuto in mente perché spesso sento persone che stimo molto parlare di crisi con la lettura, come per giustificarsi di una colpa.
Non sono cresciuta in un mondo bellissimo circondata da libri. Non avevamo una libreria di famiglia o, perlomeno, non era una vera e propria libreria ma una specie di scaffalatura con tutti i libri e con tutto ciò che ne avesse parvenza che un giorno ci si era ritrovati in casa. C’erano i libri del liceo dei miei genitori, l’elenco telefonico, i libretti sanitari, qualche fumetto, l’enciclopedia per le ricerche scolastiche “Scoprire” Fabbri editore, l’editoria allegata ai quotidiani, fiabe, un’edizione del 1986 de L’amore ai tempi del colera di mia madre, che ho portato con me qui a Roma quando sono partita a diciannove anni (la mia vita sola in mare aperto – come una vela sperduta).
A quei tempi non c’era, nel mio paese, una biblioteca, né una libreria. La più vicina (una cartolibreria) era ad almeno 25 chilometri, quindi se anche qualcuno avesse voluto regalare un libro a un bambino si sarebbe dovuto organizzare.
Però c’era l’edicola del Bar Sport, povera e piena di arretrati e d’estate ci si spostava nel paesino accanto, sul mare, con un’edicola più fornita e vivace, e io con la mia paghetta facevo incetta di Topolino, Paperinik, Minnie & co., tutto ciò che potesse essere commestibile, perché avevo una fame di leggere che non potete immaginare.
Le edicole sono ancora oggi tra i miei posti preferiti al mondo.
Non mi sentivo sfortunata perché attorno a me non avevo esempi di lettori, di intellettuali. Era puro istinto. Le persone che conoscevo lavoravano con le mani, raccoglievano le olive o appendevano il tabacco sui tiraletti, lasciavano le buste di verdure appena colte alla maniglia del vicino, al mattino raccoglievano le uova e ne portavano uno per me che amavo l’uovo sbattuto. Era una letteratura parallela che mi ha formato come persona, più che come lettrice. La mia biblioteca è stata l’osservazione, il vicinato, nozioni mangiucchiate qua e là, i proverbi in dialetto, l’albergo dei nonni nel quale sono cresciuta guardando gli altri fare la villeggiatura.
Non sono cresciuta con i libri ma da piccola cercavo qualsiasi cosa si potesse leggere. Avevo un’urgenza che quasi mi pareva una stranezza che risolvevo ignorando quella mancata corrispondenza tra i miei desideri e le possibilità di una provincia meridionale.
Adoravo i libri assegnati a scuola (Marcovaldo, Favole al telefono. Meno, Oliver Twist e Tom Sawyer), rileggevo le fiabe di quando ero piccola e se non avevo più niente sottomano andavo a rubare gli Harmony dimenticati dalle clienti e li leggevo di nascosto senza capirci niente. Questo capitava soprattutto d’estate, quando vivevo nell’albergo dei nonni e mi annoiavo tantissimo. Qualche volta disegnavo storie, inventavo fumetti. C’era sempre questa ragazza che abitava con un gatto in città; la disegnavo con i capelli lunghi e volevo tanto essere io, un giorno.
Il punto di svolta è arrivato nella prima adolescenza, quando mio nonno accettò di tenere nella hall dell’albergo (Albergo Archi, signori. Recentemente demolito) uno stand girevole con un po’ di libri in conto vendita. Si immaginava che i clienti e i turisti di passaggio avrebbero apprezzato la novità, ma chi godette davvero dell’iniziativa di quelle due o tre estati fui io. Decisamente.
Quando non c’era nessuno intorno, sfilavo un libro – a volte senza nemmeno avere il tempo di capire di cosa si trattasse – e mi volatilizzavo. Mi nascondevo e leggevo. Leggevo senza aprirlo troppo per non rovinarlo e memorizzavo il numero di pagina a cui ero arrivata prima di riporlo nello stand, per poi riprenderlo il pomeriggio seguente. Tra quei libri rubati/presi in prestito c’erano Il gattopardo e Madame Bovary, che altrimenti avrei letto molto più tardi.
Questo ricordo bellissimo è tornato prepotente negli ultimi tempi. Mi sono ricordata quella sensazione di attesa frenetica dell’installazione dello stand e della felicità viscerale di vederlo montato e pieno. Me ne sono ricordata ora che vivo in città, ora che ho decine di librerie e una biblioteca a due passi da casa. Ci ho pensato tanto quando guardavo la pila di libri guardarmi a sua volta dal comodino e non potevo far altro che chiedermi: Perché sono così demotivata?
Allora ho smesso di pretendere, di riempire, di impilare. E ho capito cosa non funziona per me. Troppe cose, troppi libri, troppi segnalibri, troppe pubblicità, troppe persone che parlano di libri, troppe opinioni sui libri, troppi consigli di libri.
È scomodo avere tutto sottomano. Ti fa passare la fantasia.
Una rima
Visione Ancora, per un anno, la scuola a preservare la mia fanciullaggine cocciuta. Poi, la mia vita sola in mare aperto – come una vela sperduta. Carnisio, 9 luglio 1929 Antonia Pozzi (clicca qui per il manoscritto)

Figli delle stelle
Il discorso del mio amico non faceva una piega: sposarsi non è normale, bisogna essere un po’ pazzi per farlo. Sono d’accordo con lui.
Si è partiti con l’essenziale e poi alla fine c’è stata una serenata semi-improvvisata in un luogo del cuore, davanti al mare, circondati dalle persone più importanti. Con A. che cantava Fred Buongusto e i suoi amici musicisti con la chitarra. Non avendo trovato una rosa ha staccato un ramo di oleandro e lo agitava nell’aria ignaro, lo usava come microfono. Poi gli ho spiegato.
Ci siamo sposati in un bosco, penultimo tramonto di agosto, tra mille imprevisti – sì, ho sbagliato la mano della fede e l’uscita trionfale a suon di Figli delle stelle è finita con la mia acconciatura attorcigliata al bottone della sua manica e con mia cugina, autrice dell’opera, che diceva, scherzando (ma lì per lì non ho capito l’ironia): “Qui dobbiamo tagliare”.
Siamo entrati nel piazzale dove erano allestite le due tavolate, tra gli ulivi e i fiori, con una luce meravigliosa, sulle note di Metti una sera a cena. Abbiamo ballato tantissimo. La musica è stato tutto, o quasi. L’amore era gonfio, rigoglioso, scariche elettriche tra noi e tutti.
Poi c’era anche chi non c’era. Mia nonna, per esempio. L’ho voluta accanto facendomi cucire un vestito realizzato con un tesoro: i suoi tessuti di lino ricamati a mano che stavano da anni nel baule. E c’era anche mio papà. Era nella musica e nelle chitarre, anche nella canzone che inconsapevolmente A. ha cantato durante le promesse. Costruire.
Dovevo raccontarlo, perché anche la felicità ogni tanto merita il suo posto pubblico. Anche quando il mondo sembra sul punto di sbattere contro un muro, anche quando tutto sembra difficile o insopportabile. La felicità, che per definizione dura giusto il tempo di essere felici, merita una torta bianca con le ciliegie, una sessione di trucco e parrucco, un applauso, una bottiglia di spumante, un bacio sotto l’albero. Un amore, una promessa.
Sul comodino
📖 Sul comodino, finalmente, una copia di Tomorrow, and Tomorrow, and Tomorrow, di Gabrielle Zevin. Per inciso, nel periodo in cui rubavo/prendevo in prestito i libri dallo stand dell'albergo di mio nonno, lessi Frammenti di una storia d'amore, il maltradotto Margarettown (2005), e mi piacque tantissimo. Tomorrow... ha preso il posto sul comodino del romanzo d'esordio di Roberta Recchia, Tutta la vita che resta, dove compaiono anche le pettegole dell'Alberone.
🧴 La Sun Face Oil Control Tinted SPF 50+ di Eucerin continua a imperare anche in autunno. L'unica crema SPF che non mi dà fastidio. La alterno a quella di Paula's Choice (Anti-Aging Crema Giorno SPF 50) che costa un botto, che dice che mi farà invecchiare meno in fretta e che uso per diluire il fondotinta.
🖊️ La creatura mostruosa che appoggio sul comodino e ormai viene sempre con me è il Kindle Scribe. Ho tanti taccuini per i tanti progetti lavorativi e non, scrivo con la stilografica e cambio strumento (penna, matita, evidenziatore, con varie misure della punta) con una soddisfazione che rasenta il feticismo.
💍 La fede? No, quella non la lascio sul comodino, ci dormo. [Che è tra i primi tremendi interrogativi che emergono appena sposatə, insieme a “Ma la tolgo o no per fare la doccia?”]
Le edicole sono uno dei luoghi più belli anche della mia infanzia!